27/06/12
26/06/12
25/06/12
Telefono Cosa!
Il Presidente della Repubblica è il custode della Costituzione o il garante dei partiti? Rappresenta la Nazione,
cioè tutti i cittadini, o le nomenklature politiche e altri
privilegiati di establishment? L’inquilino del Quirinale e i maggiorenti
della Casta sembrano oggi avvinti in una sinergia di reciproco sostegno, a preventiva de-legittimazione e anatema per qualsiasi critica che possa mettere in discussione l’uno o gli altri.
Il Capo dello Stato aveva scelto la data del 25 aprile per un attacco in piena regola al movimento di Beppe Grillo,
tacciato di qualunquismo. Il Presidente di tutti gli italiani può
attaccare una forza politica, a meno che questa non metta a repentaglio
la Costituzione repubblicana e il suo fondamento antifascista? Non
avendo avuto nulla da ridire né sul partito di Berlusconi né sulla Lega,
Napolitano si è inibito il diritto, istituzionale, politico e
innanzitutto morale, di criticare chicchessia.
I partiti si sono schierati perinde ac cadaver in sua difesa, quando ha ostracizzato la “campagna di insinuazioni e sospetti costruita sul nulla”, cioè la pubblicazione delle intercettazioni del
suo consigliere giuridico colto in aumma aumma con il testimone (poi
indagato) Mancino per intralciare il lavoro di una Procura. Nessun
reato? Probabilmente. Mentre in America per intralcio alla giustizia,
crimine di particolare gravità, si finisce subito in galera. Si può in
buona fede negare che vi sia stata almeno “immoral suasion”?
Schifani
ha tuonato che “chi attacca Napolitano attacca il Paese”, con Bersani
allineato “toto corde”, mentre Casini ha accusato “schegge della
magistratura che forse hanno obiettivi intimidatori”, benché sappia
benissimo che non solo il Procuratore antimafia Grasso, ma perfino il
Procuratore generale della Cassazione Esposito (che a Mancino dice: “Io
sono chiaramente a sua disposizione”) hanno dovuto riconoscere come
ineccepibile il comportamento di Ingroia e Di Matteo. Chi ha obiettivi intimidatori?
Pesa, finqui, il silenzio di tanti giuristi e intellettuali da sempre impegnati nella difesa della democrazia.
La loro perplessità non ha nulla di risibile, anzi. Sono angosciati per
una crisi gravissima, che potrebbe precipitare al buio e nel buio.
Pensano che “lasciar correre” sul Presidente sia il male minore.
Hannah
Arendt diceva che i mali minori preparano il male peggiore. Napolitano
ha spinto pubblicamente perché il Parlamento approvi la legge bavaglio.
Siete davvero sicuri che sia questo il male minore?
23/06/12
22/06/12
21/06/12
Forza Grecia / Massimo Gramellini
Continuo a sentire persone insospettabili che domani sera faranno il
tifo per la Grecia contro la Germania. Il calcio c'entra poco. Anche la
solidarietà per i cugini mediterranei. In Italia - e non solo dalle
parti del Cavalier Grillo, ultima metamorfosi di Berlusconi - sta
montando un pregiudizio antitedesco: alla Germania egoista viene
attribuita la crisi mortale in cui si sta avvitando l'Europa. I più
arrabbiati sono gli anziani, o diversamente giovani, ai quali le recenti
vicende evocano antichi fantasmi. Se parlate con qualcuno di loro, vi
dirà che gli eredi di chi trascinò l'Europa in un conflitto che la
indebolì per sempre dovrebbero sentire una responsabilità speciale,
affatto esaurita. Nel dopoguerra gli americani finanziarono la rinascita
di Paesi lontani, in cui oltretutto erano morti i loro figli. Come
possono i tedeschi non avvertire il dovere morale di promuovere un piano
Marshall per salvare l'Europa? Pensano davvero di riuscire a rimanere
un'isola di benessere nel cuore di un continente in miseria?
Così ragionano i sopravvissuti della seconda guerra mondiale, arrivando a suggerire atti estremi come il boicottaggio dei prodotti tedeschi. Ma anche chi è arrivato in seguito prova un certo disagio nel confrontarsi con gli stereotipi del bavarese medio, che raffigura noi popoli mediterranei come una massa di scansafatiche abbronzati e pieni di debiti, perciò meritevoli di un ridimensionamento che ci costringa a illividire nella tristezza. In realtà il bavarese medio la pensava così già ai tempi di Kohl. Ma Kohl se ne infischiava, perché a differenza di Merkel era uno statista.
Così ragionano i sopravvissuti della seconda guerra mondiale, arrivando a suggerire atti estremi come il boicottaggio dei prodotti tedeschi. Ma anche chi è arrivato in seguito prova un certo disagio nel confrontarsi con gli stereotipi del bavarese medio, che raffigura noi popoli mediterranei come una massa di scansafatiche abbronzati e pieni di debiti, perciò meritevoli di un ridimensionamento che ci costringa a illividire nella tristezza. In realtà il bavarese medio la pensava così già ai tempi di Kohl. Ma Kohl se ne infischiava, perché a differenza di Merkel era uno statista.
20/06/12
Confindustria Potemkin
La riforma del lavoro è una boiata, ha dichiarato il nuovo presidente di
Confindustria, premurandosi di precisare che in questo periodo sta
cercando di moderare i toni. Gliene siamo grati. In effetti Squinzi non
ha prodotto rumori con la bocca né mostrato il dito medio alla platea.
Si è limitato all’analisi cruda, essenziale: una boiata. Può darsi abbia
ragione, intendiamoci. Molti la pensano come lui. Però, specie se
occupano ruoli di responsabilità e non stanno bevendo l’aperitivo al
bar, si sforzano di articolare il dissenso in forme più complesse. Che
sciocchini. Boiata ha tanti pregi: è una parola sciatta, quindi
spacciabile per popolare, ed essendo composta da sole sei lettere entra a
meraviglia nei titoli dei giornali.
La sua storia è un po’ la storia delle nostre classi dirigenti. In
Italia non è mai esistito un linguaggio medio: l’alternativa al lessico
incomprensibile dei cortigiani era il dialetto ruspante della plebe, poi
scomparso a favore di un «banalese» televisivo smunto nei vocaboli e
trucido nei contenuti. Quando negli anni Settanta quel genio di Paolo
Villaggio ruppe il conformismo culturale facendo dire al suo Fantozzi
«la Corazzata Potemkin è una boiata pazzesca» (al cinema diventò
«cagata»: probabilmente «boiata» fu considerato un termine letterario),
un urlo di liberazione si levò dalla Penisola. I potenti non si
vergognarono più di assumere il linguaggio delle loro vittime e con una
parolaccia e una barzelletta ne conquistarono il voto. Da allora fra
potenti e sudditi non c’è più alcuna differenza di stile, di cultura, di
sogni. Soltanto di soldi. (Massimo Gramellini)
13/06/12
Tracce di Stato / Massimo Gramellini
Concorso per avvocato dello Stato, la crema dei burocrati d’alto bordo.
Tre posti e mille candidati. Benché il rapporto fra i due numeri susciti
sgomento, è la messa cantata della meritocrazia. Uno di quei momenti
solenni in cui si seleziona la classe dirigente del futuro. Quand’ecco
insinuarsi in aula i primi mormorii: pare che sui banchi di alcuni
candidati (inclusa, sarà una coincidenza, la figlia di un avvocato dello
Stato) siano spuntati dei codici civili commentati. Vietatissimi dai
regolamenti e perciò penetrati serenamente fin lì. Incomincia a girare
voce che abbiano addirittura il timbro della commissione d’esame. In
passato i non raccomandati avrebbero portato ugualmente a termine la
prova, con la rassegnazione di chi sa che in Italia i concorsi sono gare
col trucco in cui chiunque appartenga alla corporazione in esame si
ingegna a tirare dentro parenti e amici sotto l’occhio distratto dei
commissari. I più svelti si sarebbero accordati direttamente con i
raccomandati, facendosi comprare il proprio silenzio con un «aiutino».
Ma stavolta i giovani tagliati fuori dai giochi non si inchinano e non
si accordano. Strepitano. E la voce della commissione viene sepolta
dalle tante che urlano e intonano l’inno di Mameli.
Arrivano poliziotti e carabinieri, la prova viene sospesa e l’avvocato generale dal nome spagnoleggiante, Ignazio Francesco Caramazza, parla di «minoranze» e «pretestuose lamentele». Non ha capito che l’aria sta cambiando: se i privilegiati non mutano registro, presto si tramuterà in tempesta contro ogni casta consolidata, finendo per travolgere anche il buono che resta.
Arrivano poliziotti e carabinieri, la prova viene sospesa e l’avvocato generale dal nome spagnoleggiante, Ignazio Francesco Caramazza, parla di «minoranze» e «pretestuose lamentele». Non ha capito che l’aria sta cambiando: se i privilegiati non mutano registro, presto si tramuterà in tempesta contro ogni casta consolidata, finendo per travolgere anche il buono che resta.
08/06/12
07/06/12
La dissolvenza della casta

Hanno fatto apposta a mettere la mozione ai voti mentre ero in vacanza,
si è difeso maldestramente il gaffeur, capogruppo del Partito
democratico. E sì che ne avrebbe avuto di tempo per esplorare la Grecia:
in yacht, in motoscafo e persino in gommone. Ad aprile il Consiglio
regionale lombardo, stremato dagli straordinari della Minetti e del
Trota, si era infatti autoelargito un ponte di tre settimane.
Al Senato di Roma, intanto, andava in scena il salvataggio del molto
onorevole senatore Sergio De Gregorio, già fondatore dell’associazione
Italiani nel Mondo (poveri italiani, ma soprattutto povero mondo),
imputato di bazzecole quali associazione a delinquere, truffa e false
fatturazioni per 23 milioni di euro (tutti soldi nostri, tranquilli)
nell’inchiesta sui fondi pubblici versati al cosiddetto giornale
«Avanti!» di Valter Lavitola. I giudici avevano chiesto l’arresto di De
Gregorio e la giunta per le immunità, schiacciata dall’evidenza dei
fatti, si era dichiarata per una volta d’accordo. Ma nel segreto
dell’urna centosessantanove senatori hanno votato contro il
trasferimento in carcere del sant’uomo. I berluscones sodali suoi,
certamente. Ma anche altri che a parole lo avevano criticato. Chi? Si
sospetta di qualche leghista, di qualche terzopolista e persino di
qualche democratico smanioso di ricambiare certi favori fatti in passato
(ricordate il salvataggio di Tedesco?) o fattibili in futuro: incombe
il verdetto del Parlamento sul transito alle patrie galere di un altro
specchiato galantuomo, il tesoriere Lusi.
Sulla torta quotidiana della Casta mancava soltanto la ciliegiona e a
metterla sono stati i pasticcieri dei tre partiti maggiori, che hanno
colto l’occasione delle nomine delle Autorità (Comunicazioni e Privacy)
per dare vita a una famelica e scientifica spartizione di posti.
L’aspetto insopportabilmente ipocrita della faccenda è che per darsi un
tono i partiti avevano sollecitato l’invio dei «curricula» di alcuni fra
i giuristi più prestigiosi, Zagrebelsky su tutti. Naturalmente nessuno
li ha presi in considerazione. Ne hanno fatto carta da cesso, ha
sintetizzato Di Pietro con la consueta brutalità, supponendo
ottimisticamente che li avessero almeno srotolati. Più probabile invece
che giacciano intonsi in qualche cassetto. I nomi giusti erano già stati
scelti dai capibastone nelle segrete stanze. Alle Comunicazioni vanno
amici fidati e benissimo pagati, che entro sessanta giorni dovranno
decidere se assegnare gratuitamente o meno le frequenze televisive a chi
li ha nominati. Mentre a occuparsi di privacy arrivano la moglie di
Bruno Vespa e il democratico Antonello Soro, politico serio e perbene,
ma la cui competenza in materia di informazione e informatica risulta
assai opinabile, trattandosi di un medico specializzato in dermatologia.
Chissà perché fanno così. Forse pensano che i cittadini siano stupidi e
che a tenerli buoni basti il taglio ipotetico di qualche auto blu,
mentre loro vanno avanti ad autoassolversi e lottizzare. Ma è più
probabile che non possano fare altrimenti e che, con l’avvicinarsi del
giudizio elettorale, la paura si associ al menefreghismo nell’ispirare
comportamenti suicidi. Quello a cui stiamo assistendo impotenti è il
«cupio dissolvi» di una generazione politica. (Massimo Gramellini)
Nomine e impunità, lo scandalo infinito
Non solo il tempo passa invano, ma le peggiori pratiche si riproducono in modo sempre più brutale e sprezzante contro la trasparenza e il merito. Con tanto di esasperazione esibita del conflitto di interessi ed, incredibilmente, con il trionfo della spartizione partitocratica mentre i partiti sono sempre più in agonia.
La nomina dei consiglieri di due authority fondamentali come l’Agcom e la Privacy è
riuscita a riconsegnare il patentino di controllore e garante dei
principi dell’art. 21 della Costituzione, ad un personaggio come Antonio Martusciello a riconferma della assoluta ed inamovibile continuità del conflitto di interessi
nell’era del governo “tecnico”. Un uomo nato Publitalia e poi
transitato alla Sipra dovrà continuare ad occuparsi di libertà di
espressione, pluralismo, mercato, concorrenza, monopoli tv, raccolta
pubblicitaria.
Quando era stato scelto nel settembre 2010, molto opportunamente Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, aveva parlato di scandalo
per la nomina di un consigliere individuato e scelto in forza e grazie
al suo conflitto di interessi, per essere stato dirigente di Fininvest-Publitalia,
oltre che molto altro. ‘Scandalo’ pacificamente ratificato da Giorgio
Napolitano, che non aveva posto tempo in mezzo a firmare il relativo DPR
di nomina, e che non aveva suscitato nessuna particolare reazione da
parte dell’ allora opposizione.
Tanto c’era sempre la provvidenziale legge Maccanico peraltro
dichiarata incostituzionale nel 2002 nella parte in cui ha consentito a
Mediaset il mantenimento di 3 concessioni TV sull’ analogico) che in
perfetta consonanza con l’inciucio bicamerale aveva cancellato il requisito della “notoria indipendenza”, a cui persino il governo del Caf si era richiamato nel ’90.
E
comunque tra i nominati non emerge, per quanto poliedrico, solo
Martusciello, già sottosegretario all’ambiente, nonché sfidante della
Iervolino a Napoli nel 2001, uno che poteva vantare Alfonso Papa
nel suo comitato elettorale ed sindaco di Pagani, poi consigliere
regionale, arrestato e condannato per peculato nella sua corrente di FI.
Per limitarsi ai casi più pittoreschi c’è da segnalare la scelta della
signora Augusta Iannini
in Vespa quale garante alla privacy, un magistrato fuori ruolo, ex gip
al tribunale di Roma insediato in pianta stabile al ministero della
Giustizia ma con ripetute trasferte a palazzo Grazioli, fidata
consulente dell’ex guardasigilli Angelino che si è prodigata con tenacia nella strenua difesa della “riservatezza” delle “cene eleganti” di Arcore. Tanto
da partecipare agli incontri al vertice con lo staff difensivo
capitanato da Ghedini nella residenza romana del signore del Burlesque
per cercare di scippare con ogni mezzo ai suoi giudici naturali il
processo Ruby.
Ma in fondo i criteri e le modalità delle nomine
non sono che una conferma dello ’spirito dei tempi’ che domina le nostre
istituzioni.
Nello stesso giorno il Senato ha respinto con una maggioranza schiacciante, grazie al generoso apporto dei franchi tiratori, la richiesta di arresti domiciliari per Sergio De Gregorio che ha truffato lo Stato per 23 milioni di euro dirottandoli anche a favore di Lavitola, mentre il consiglio regionale lombardo con i voti leghisti ha graziato ancora una volta Formigoni. (Daniela Gaudenzi)
06/06/12
05/06/12
04/06/12
Punti di vista
Erano da poco passate le otto di sera quando mi sono appisolato davanti
al televisore mentre il direttore del Tg1 intervistava il segretario di
Stato vaticano. Nell’appisolarmi ho sognato. E nel sognare ho rivisto il
me stesso bambino addormentarsi davanti a un televisore in bianco e
nero mentre il direttore del telegiornale intervistava il segretario di
Stato vaticano. Che modi avevano allora, i direttori del telegiornale.
Diritti e compunti sulla sedia come dinanzi al prete del loro
matrimonio. E poi quelle domande felpate con la risposta già
incorporata. E la faccia: protesa ad annuire in sincrono con l’intero
corpo e paralizzata in una smorfia ineffabile di beatitudine. Anche i
segretari di Stato vaticani erano ben strani, a quei tempi. Tradivano la
scarsa conoscenza del mezzo televisivo e il loro eloquio curiale
scorreva distante dalla realtà, caldo e inafferrabile come sciolina
nelle orecchie: «La trasparenza è un fatto di solidarietà… Spesso
avviene che le chiarificazioni siano frutto di un lavoro di dialogo…
Questi non sono giorni di divisione ma di unità…»
Mi sono svegliato di soprassalto. La tv era diventata a colori, ma le facce erano rimaste le stesse. Anche le domande del direttore. Con le risposte già incorporate, anzi forse già scritte in precedenza, dal momento che il segretario di Stato le leggeva direttamente da un foglio. Nessun riferimento a corvi e maggiordomi di Curia, ma un solenne spot sulla solidità eterna della Chiesa. Anche se a noi appisolati d’Italia l’unica cosa solida, ma soprattutto eterna, sembra la sudditanza del Tg1 al Vaticano.
Mi sono svegliato di soprassalto. La tv era diventata a colori, ma le facce erano rimaste le stesse. Anche le domande del direttore. Con le risposte già incorporate, anzi forse già scritte in precedenza, dal momento che il segretario di Stato le leggeva direttamente da un foglio. Nessun riferimento a corvi e maggiordomi di Curia, ma un solenne spot sulla solidità eterna della Chiesa. Anche se a noi appisolati d’Italia l’unica cosa solida, ma soprattutto eterna, sembra la sudditanza del Tg1 al Vaticano.
02/06/12
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