28/04/12

La parola amore


Ironizzare sul triplo cattivona, appellativo a metà strada tra la maschera di di Alberto Sordi e un B movie con Alvaro Vitali, è come sparare sulla crocerossa. Più utile, ascoltando la telefonata tra  Berlusconi e la Polanco, soffermarsi sull’uso reiterato e insistito della parola amore.
La conversazione è infatti un pregiato florilegio di amore mio e amore tuo, con una sola e giustificabile scivolata nella sincope amo’,  che fa tanto feria d’agosto a Ventotene. Come una sinfonia, la partitura è prima un contrappunto, poi un crescendo con variazione che giunge al suo naturale ritorno sul tema iniziale. 
Quando e come si può passare a prendere il contante da Spinelli.
Ora sarà un eccesso di personale romanticismo o un moto di igiene grammaticale. Sarà una vocazione un po’ vintage al sentimentalismo o un omaggio ai giovani Werter di ogni tempo e paese.
Ma la prima cosa che viene in mente ascoltando la voce mielosa del Cavaliere è che la parola amore andrebbe usata con parsimonia, come qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno e che ognuno ha almeno una volta perduto. Come la parola democrazia. (Marco Bracconi)

26/04/12

L'Incredibile





Grillo contro Maciste
Marco Travaglio

Le accaldate dichiarazioni dei politici su Beppe Grillo sono uno spettacolo impagabile, da scompisciarsi. Tutti contro uno, come contro la Lega delle origini. Sono talmente terrorizzati da non notare la ridicolaggine di un’intera classe politica, seduta su 2,5 miliardi di soldi pubblici camuffati da rimborsi, padrona del governo e del Parlamento nonché di tutti gli enti locali, ben protetta da Rai, Mediaset e giornaloni, infiltrata in banche, assicurazioni, aziende pubbliche e private, Tav, Cl, P2, P3, P4, ospedali, università, sindacati, coop bianche e rosse, confindustrie, confquesto e confquello che strilla come un ossesso contro un comico e un gruppo di ragazzi squattrinati, magari ingenui, ma armati solo delle proprie idee e speranze.
Il presidente della Repubblica che commemora la Liberazione dal nazifascismo lanciando moniti, anzi anatemi contro un comico (“il qualunquista di turno”), è cabaret puro. Dice che “i partiti non hanno alternative”: ma quando mai, forse per lui che entrò in Parlamento nel ’53 senza più uscirne. Tuona contro l’“antipolitica” (e ci mancherebbe pure, vive di politica da 60 anni). Ma non si accorge che nessuno ha mai delegittimato i partiti e la politica quanto lui, che sei mesi fa prese un signore mai eletto da nessuno, lo promosse senatore a vita e capo di un governo con una sola caratteristica: nessun ministro eletto, tutti tecnici più qualche politico travestito da tecnico.
E non se ne avvedono neppure i giornaloni che dedicano all’ultimo monito pensosi editoriali dal titolo “Il tempo è scaduto”. Se un comico parla del capo dello Stato e lo sbeffeggia, è normale, mentre non s’è mai visto un capo dello Stato che parla di un comico, per giunta neppure candidato, per dirgli quel che deve fare o dire. Napolitano contro Grillo è roba da “Totò contro Maciste”. Ma il meglio, come sempre, lo danno i partiti. Anche una personcina ammodo come Guido Crosetto del fu Pdl riesce a dire che Grillo gli ricorda “il fascismo”, anzi “il razzismo”, anzi “il nazifascismo”, anzi “Goebbels” in persona. Le pazze risate. Grillo dice che, se Napolitano difende i partiti, è “il presidente dei partiti”: logica pura, ma per Bersani è “insulto”. Segue minacciosa diffida per leso monito: “Grillo non si permetta di insultare Napolitano, non si arrischi a dire cosa direbbero i partigiani se tornassero: loro saprebbero cosa dire dell’Uomo Qualunque”. Brrr che paura.
Livia Turco lacrima in tv perché la gente ce l’ha con i politici e non si capacita del perché. Casini intima a Grillo di “entrare in Parlamento a misurarsi coi problemi concreti” e “smetterla con le chiacchiere”. Perché se no? Forse dimentica che Grillo in Parlamento entrò tre anni fa, per portare le firme di 300 mila cittadini su tre leggi d’iniziativa popolare: ma, siccome prevedevano l’incandidabilità dei pregiudicati, il limite di due legislature per i parlamentari e una legge elettorale democratica al posto del Porcellum, i partiti le imboscarono tutte e tre. Anche perché, con quelle, l’Unione dei Condannati si sarebbe estinta e gli altri partiti quasi. Siccome Dio acceca chi vuole rovinare, i partitocrati seguitano a confondere le cause con gli effetti. Grillo l’hanno creato loro: rifiutando le sue proposte, asserragliandosi a palazzo, barricando porte e finestre, alzando i ponti levatoi per tenere lontani dalla politica i cittadini e rovesciando su di loro pentoloni d’olio, anzi di merda bollente.
E ora che, al borsino della fiducia, raccolgono tutti insieme il 2%, non trovano di meglio che fare l’ammucchiata: ABC, il Trio Alfanobersanicasini, vanno in giro a braccetto per far numero e volume, annunciando riforme elettorali, leggi sui partiti, tagli alla casta, norme anti-corruzione e misure per la crescita che nessuno farà mai. Più gli elettori si allontanano, più i capi si avvicinano, illudendosi di riempire il vuoto da essi stessi creato. Sfilano al proprio funerale come se il morto fosse un altro.  

23/04/12

Il verdetto della tristezza


Siamo in uno stato di diritto. Se ci sia stato sesso, abuso di potere, sfruttamento, lo dirà il processo. Così come sarà il processo a valutare la rilevanza penale della telefonata tra Ruby e la sua amica pubblicata oggi da Repubblica.it.
Ma nessun giudice, avvocato o codice penale potrà confutare la verità di quella tonalità di voce.
Quel mezzo sorridere, mezzo insicuro e l’altro mezzo velleitario. Quel registro di conversazione sospeso tra cinismo e candore da liceale senza liceo.
Una adolescente. Ruby Rubacuori era proprio una adolescente.
E in attesa del verdetto dei giudici, oggi è stata scritta la prima sentenza. Quella della tristezza.
E per la tristezza, anche in uno stato di diritto, non c’è nessun processo d’appello. 
(Marco Bracconi)

22/04/12

Svolta Continua




Italian Burlesque: il "nuovo"Pdl
E’ tutto un interrogarsi sull’annunciato mirabolante coup de théatre che all’indomani delle amministrative “cambierà il corso della politica italiana”.

Un predellino due? Una lista civica nazionale con prestigiose personalità non meglio identificate che affiancherebbe i cascami di un “nuovo” Pdl oltre lo sfascio? Un “contenitore” di nuovo conio, naturalmente “con facce nuove” e rigorosamente sotto i cinquanta per tentare penosamente di bilanciare l’età anagrafica e la insostenibile senescenza politica dell’eterno padre-padrone?
L’ordigno mediatico-propagandistico “fine di mondo” del duo Berlusconi-Alfano, il più comico del ricchissimo parterre politico-istituzionale, potrebbe addirittura essere, suggeriscono i meglio informati, una campagna elettorale per le prossime politiche sul modello di quella di Obama e/o fondata sugli insuperabili tea party della mitica Sarah Palin, tanto che differenza fa?
E la carta vincente che Berlusconi avrebbe in serbo da quando ha fatto l’eroico “passo indietro” sarebbe of course quella dell’ antipolitica. In fondo a ben vedere, e se le parole hanno un senso, chi più e meglio di lui la può rappresentare?

A lui infatti va riconosciuto il merito incontrastato di avere coerentemente ridicolizzato, corrotto, mortificato e alla fine distrutto la politica italiana insieme alle istituzioni, prima, meglio e più compiutamente di chiunque altro, senza che opposizioni, “intellettuali”, massime cariche dello stato abbiano abbiano più di tanto battuto ciglio, anche perché troppo impegnate a bacchettare i pochi “sabotatori” e “demonizzatori” che non ci stavano.

Forse, chissà, in fondo in fondo anche Napolitano, più o meno consapevolemente, doveva riferirsi in primo luogo a lui quando, qualche giorno fa, ha messo in guardia contro i rischi mortali per la democrazia rappresentati dall’antipolitica.

Il signore del Burlesque, piccola trasgressione alle “cene eleganti”, costretto in forza del suo senso di responsabilità e della sua disinteressata munificenza a prendersi in carico economicamente “le vite distrutte dai Pm” delle ragazze presenti ai suoi innocenti conviti e che casualmente sono suoi testi a difesa, si starebbe dunque coerentemente riprogrammando come massimo fustigatore degli abusi dei partiti e campione immacolato della società civile.

Pochi anche all’interno del partito sarebbero compiutamente a conoscenza del progetto di palingenesi tanto che il povero Cicchitto, che non sembra il più indicato a rappresentare il restyling miracoloso, ha risposto tra l’enigmatico e l’imbufalito che si tratta di “segreto gelosamente custodito” di cui è a conoscenza insieme al demiurgo solo il depositario per investitura del verbo berlusconiano, il delfino-clone Angelino Alfano.

L’aura di attesa miracolistica sparsa sull’ennesima metamorfosi, o meglio, giravolta del partito che ha concentrato in sé i peggiori vizi della prima e cosiddetta seconda repubblica non fa che confermarne lo stato di putrescenza ed il grado di paura per una situazione che viene monitorata giorno per giorno con sondaggi e controsondaggi e che risulta sempre più disperata e fuori controllo.

Anche se stabilire graduatorie di demerito per i partiti in questi giorni risulta quasi impossibile ed il partito di Berlusconi ha sempre primeggiato, la magniloquente arroganza con cui tenta ancora di tenere le prime pagine e di dettare l’agenda politica evidenzia, con un gigantesco effetto boomerang, lo stato confusionale ed il delirio di onnipotenza da ultimo stadio. (Daniela Gaudenzi)

Compagnia dei Celestini



I Serenissimi / Antonio Padellaro

Limpidi come acqua di fonte”, “tranquillissimi” e naturalmente “sereni”, i politici beccati a trafficare con smeraldi e lingotti d'oro, inquilini a sbafo di ville turrite o senza la ricevute (“smarrite”) comprovanti il pagamento di vacanze di sogno alle Antille, molto si dolgono delle “diffamazioni” che osano mettere in dubbio il sacrificio di “chi si è speso per ciascuno e per tutti i lavoratori della sua terra”. 
Serenissimi Rosi Mauro e Roberto Calderoli, serenissimo Roberto Formigoni, tutti naturalmente intenzionati a non mollare la poltrona, tutti con le motivazioni più nobili e disinteressate che il governatore lombardo riassume in una frase che andrebbe scolpita sul monumento nazionale alle facce di bronzo: “Inutile dire che non mi dimetterò poichè sarebbe da irresponsabili piegarsi al ricatto dei calunniatori e dare soddisfazione a lobby a cui nulla importa della crisi che sta devastando l'Italia”. 
Ecco, ci vuole un'impudenza assoluta per mescolare i 13mila euro dei dorati soggiorni ad Anguilla, pagati chissà da chi, con la disperazione di milioni italiani impoveriti dalla crisi e che non sanno più dove sbattere la testa. Ma in questa oscena manifestazione di sé si avverte un senso di onnipotenza e invulnerabilità purtroppo non del tutto immotivato. 
I Formigoni non nascono dal nulla ma sono al vertice di una piramide di potere dove tutto si tiene. Perché nessuno nel consiglio regionale lombardo ha la forza (e forse anche la voglia) per sfiduciare il vanesio personaggio. E perchè se lui cade, tutta la piramide edificata e tenuta insieme dal cemento degli interessi e dei favori, degli affari e dei ricatti verrebbe giù. E questo lo sanno bene tutti i Formigoni d'Italia che insaziabili fruitori di resort, appartamenti e aragoste pagate a loro insaputa, il massimo favore che ci possono fare è quello di cambiare giacca o cambiare sigla alle loro combriccole di partito. 
Se ne fregano e ci sfottono ben consci che anche se alle elezioni non votasse più nessuno loro continuerebbero imperterriti a dividersi la torta, l'unica in un paese che va in malora.

20/04/12

Capolavori Nascosti.4

Van Cleef - Une cascade du diamants

Soldi nostri / Massimo Gramellini

Dice Bossi: quei soldi erano nostri, potevamo farci quel che ci pareva, anche buttarli dalla finestra. Se era un tentativo di migliorare la posizione della Lega agli occhi degli elettori, temo non gli sia riuscito troppo bene. La sua frase rivela semmai lo spirito della Casta e il morbo che ha devastato il rapporto fra partiti e cittadini. Quei soldi, signor Bossi, non sono vostri. Sono nostri. Dei contribuenti che li hanno versati attraverso le tasse, spremendoli dal frutto del proprio lavoro. Sono un prestito che facciamo alla politica e che la politica è tenuta a restituirci con le sue opere e a documentarci con rendiconti precisi. Essendo soldi nostri, non solo ci interessa sapere come li spendete, ma saperlo è un nostro diritto. Altro che buttarli dalla finestra o negli stravizi del Trota.

In fondo è la stessa forma di rispetto che pretendiamo dal dipendente pubblico, quando allo sportello ci tratta da postulanti. Ma come si permette? Siamo noi a pagargli lo stipendio, perciò deve mettersi al nostro servizio: persino quando siamo insopportabili (a volte lo siamo anche noi). Così almeno diceva mio padre, impiegato statale. È incredibile, ma forse no, come la Lega abbia mutuato dalla burocrazia di Roma ladrona i difetti che canzonava nei comizi delle origini. La visione proprietaria del bene pubblico e dei fondi della comunità. Quel pensiero molto italiano che ciò che è dello Stato non appartenga a nessuno e quindi chiunque ne possa approfittare. Invece appartiene a tutti: impariamo a difenderlo dai Bossi di oggi e possibilmente anche da quelli di domani.

19/04/12

La politica del babau



Perché Monti continua a farci del male, agitando lo spettro della Grecia? Possibile che nella squadra dei tecnici non ci sia uno psicologo in grado di spiegargli che i cittadini non sono bambini da spaventare, ma adulti da motivare? Anche ieri la solita storia: cari italiani, se non vi tassassimo a sangue, fareste la fine di Atene. Nel racconto montiano l’Italia è un viandante sopravvissuto miracolosamente alla prima fase della carneficina, ma tuttora inseguito da un branco di lupi a cui ogni giorno deve sacrificare uno stinco o un gomito per avere salva la vita. Una fotografia vera, ma schiacciata sul presente. Manca ciò che da tempo si chiede invano ai governanti: una visione del futuro. Aumentare la benzina è un’aspirina, non una cura. E non lo è neppure combattere l’economia sommersa dei privati senza toccare la spesa pubblica e il sottobosco corrotto della burocrazia.

I nostri nonni possedevano il nulla, ma si sentivano dire dalla politica che, sgobbando con passione, avrebbero potuto avere tutto o almeno qualcosa. Adesso il sentimento dominante nel discorso pubblico non è più la voglia, ma la paura. Quella peggiore, poi: la paura di perdere, anticamera della sconfitta sicura. Il cittadino è disposto a sacrificarsi se gli si offrono una direzione di marcia e una prospettiva di riscossa. Ma se ci si limita a spaventarlo col babau della povertà, lungi dal reagire si dispera e si arrende. Forse, oltre che uno psicologo, a questa squadra di tecnici manca un filosofo. Uno che li aiuti a capire che nel destino delle nazioni esiste qualcosa di più grande dello spread.
(Massimo Gramellini)

18/04/12

Anche Gesù



Anche Gesù ha sbagliato un collaboratore, si difende il ponziopilato della Lombardia. Dopo ponderate riflessioni avrei ravvisato alcune differenze fra il Cristo e il Celeste (uno dei due soprannomi di Formigoni, l’altro è il Modesto, ma l’uomo è così modesto che preferisce non farlo circolare). Gesù fu battezzato dal Battista, Formigoni dal Berlusca. La carriera pubblica di Gesù si consumò in tre anni, quella di Formigoni in Regione prosegue imperterrita da diciassette. Gesù non faceva vacanze di gruppo sugli yacht dei farisei: preferiva i pescherecci, casomai una camminata sulle acque. Quanto al suo tesoriere, Giuda era più economo di Lusi (vabbé, ci vuol poco), più colto di Belsito (vabbé, idem) e a differenza dei formigonidi non venne mai raggiunto da avvisi di garanzia. Gesù sapeva bene chi era Giuda: non fu tradito a sua insaputa. In ogni caso avrebbe commesso un errore di valutazione isolato. Formigoni invece di collaboratori ne ha sbagliati parecchi, a cominciare dal sarto daltonico che gli sforna le camicie per proseguire col cugino depresso di Andy Warhol che ha ideato quegli spot sul Web in cui il Celeste fa lo spadaccino.

Sugli altri collaboratori sbagliati preferirei tacere, avendo già parlato la magistratura. Aggiungo solo che la cifra del tradimento di Giuda, trenta denari, anche al netto dell’inflazione risulta di gran lunga inferiore a quelle che danzano nel cielo sopra Milano per sfamare gli appetiti dei notabili e delle lobby che li sostengono. (Lobby? Ho detto lobby? Scusate, mi ero scordato che, grazie al finanziamento pubblico dei partiti, viaggiano lontane anni luce dal mondo della politica).
(Massimo Gramellini)

17/04/12

Errore drammatico


Alfano Bersani Casini hanno lanciato il loro personalissimo urlo di dolore: cancellare i soldi pubblici ai partiti sarebbe un errore drammatico, in quanto consegnerebbe la politica ai ricchi e alle lobby. Sacrificando, immagino, la confraternita di monache e filosofi che l’ha guidata negli ultimi vent’anni. Con buona pace della dirigenza del Pd, permalosa assertrice di una «diversità» che le cronache degli ultimi mesi hanno reso in gran parte immaginaria, chi critica la sordità della Casta non è un demagogo. Sa che la buona politica è tale solo se viene finanziata dai contribuenti. Ma a tre condizioni: che ogni dieci anni ci sia un ricambio completo del personale (la corruzione prolifera negli stagni), che i politici siano scelti dagli elettori, e che siano molti di meno: non il milione di persone che traffica nel sottobosco dei partiti e delle istituzioni da essi occupate.

Peccato che di questi temi nell’urlo di ABC non vi sia traccia. I tre capi della maggioranza non vogliono cancellare gli emolumenti pubblici ai partiti. Ma si guardano bene anche solo dal dimezzarli. Promettono, bontà loro, maggiori controlli affinché i tesorieri non possano più spostare milionate di euro all’insaputa dei loro astutissimi leader, ma lasciano la sanzione al Parlamento, cioè a se stessi. Il vero errore drammatico, agli occhi dei cittadini, è che al culmine di una crisi che sta atterrando l’Italia l’unico documento congiunto che ABC abbiano sentito l’esigenza di firmare sia quello a tutela dei loro interessi. (Massimo Gramellini)

14/04/12

Tranche


Sperpero che grida vendetta 

L’incredibile ammissione fatta dal tesoriere del Pd Misiani alla nostra Wanda Marra (“Non abbiamo un euro in cassa”) cade in una giornata drammatica per l’economia italiana con la Borsa a picco, con lo spread sempre più in alto, con la protesta a Roma di migliaia di “esodati”, piccola rappresentanza di quanti rimasti senza lavoro e senza pensione si sentono a ragione truffati dallo Stato. Un venerdì nero segnato da altri suicidi a catena di imprenditori e manager travolti dalla crisi: 19 dall’inizio dell’anno, qualcosa di mai visto nel nostro Paese. E che dire delle parole scagliate dal presidente Napolitano contro gli evasori “indegni della parola Italia”, rivelatrici dell’allarme nelle più alte istituzioni?

Ebbene, mentre il sistema dei partiti affonda tra ruberie e malversazioni, mentre nelle tasche di cassieri ladri e dei loro leader complici spariscono palate di euro serviti a finanziare i più svariati lussi privati e pubblici, mentre l’imbarazzante casta dei politici guidata dall’impagabile trio Alfano, Bersani Casini finge di autoemendarsi con una ridicola legge che non rinuncia a un centesimo e che farà la fine di altre riforme immaginarie (come quella che da almeno vent’anni si propone di tagliare il numero dei parlamentari), mentre il dramma si tinge di farsa, apprendiamo dalla fonte più diretta che nelle casse del maggiore partito italiano non c’è più traccia dei 200 milioni di euro percepiti dal 2008 come “rimborsi” delle elezioni politiche, europee e regionali. Spariti. Dissolti. Svaniti. “Usati per pagare l’attività politica, il personale”, sostiene Misiani, sicuramente uomo d’onore, ma che va creduto sulla parola perché su queste spesucce esistono rendiconti certificati, ma quanto esaurienti?

Presunte pezze d’appoggio hanno consentito ai vari Lusi e Belsito di fare la bella vita con i soldi nostri finché l’orgia non è stata interrotta dall’arrivo dei carabinieri. Apprendiamo così che, malgrado l’alluvione di quattrini, quasi tutti i partiti sono rimasti a secco e che senza la rata di luglio quasi tutti rischiano di fallire. Alla buon’ora, vien voglia di dire davanti a questo sperpero infinito. Che, sbattuto in faccia a un paese in ginocchio, grida vendetta. (Antonio Padellaro)

Bella Trota



Dopo alcuni minuti di inopinato silenzio, Daniela Santanchè è tornata per esporci il risultato delle sue meditazioni. Sorvolerei sul paragone fra Nilde Iotti e Nicole Minetti e non solo perché la prima ha fatto la Resistenza e la seconda al massimo la lap dance. Nel Pci bigotto del dopoguerra la carriera di Iotti fu penalizzata dalla storia d'amore con Togliatti, mentre gli incontri ravvicinati con B non hanno ostacolato le ambizioni della statista dell'Olgettina. Veniamo piuttosto al cuore della riflessione santancoide: il familismo degli italiani. Per la filosofa di Cuneo, che la mamma del Trota abbia brigato per piazzare il Trota al posto del Pesce Pilota non è un male in sé. Lo diventa perché il Trota «è un pirla». Il trucco starebbe dunque nel raccomandare parenti che non siano pirla. Come la nipote di Santanchè, da lei raccomandata a cuor leggero presso il presidente della Provincia di Milano in quanto «brava e bella». Ancorché cinico per un patetico moralista del mio stampo, il ragionamento ha una sua coerenza. Però presenta un punto debole: chi decide se un parente è bravo e bello oppure pirla? Interrogata al riguardo, scommetto che la mamma del Trota definirebbe «bravo e bello» il Trota e «pirla» la nipote di Santanchè. Si capisce quindi quanto sia urgente la creazione di un'Authority delle Raccomandazioni in grado di distinguere una volta per tutte il parente bravo da quello pirla. Per la presidenza di detta Authority mi permetto di segnalare un mio consanguineo: bello e bravo, nonostante sia imparentato con un pirla. (Massimo Gramellini)

13/04/12

Kooly Noody


PURGHE VERDI

Fuori la Mauro e il tesoriere Belsito, Renzo Bossi resta. 
La resa dei conti al congresso di fine giugno
di Fabrizio d’Esposito e Davide Vecchi
 
Anche le purghe hanno due pesi e due misure. Rosi Mauro cacciata dalla Lega, il Trota no. Ieri in via Bellerio a Milano, dove c’è la sede della Lega, hanno chiuso persino le finestre. È successo poco dopo l’arrivo, a sorpresa, della Grande Accusata Rosi Mauro, scortata dal solito Pier Mosca. Alle quattro e diciotto del pomeriggio. La riunione del consiglio federale è iniziata dieci minuti dopo. La badante-zarina del cerchio magico si è difesa con forza e urla. Di qui la direttiva di serrare le imposte. Un lunghissimo monologo per proclamarsi ancora una volta innocente. Nessun passo indietro, niente dimissioni da vicepresidente del Senato. Orgoglio ma anche disperazione: “Dove vado, che fine faccio? Non potete trattarmi così”. A Milano, la sindacalista padana Mauro, semplice uditrice senza diritto di voto, si è presentata inaspettata e accompagnata da voci su un presunto patto con il Senatùr: dimissioni da Palazzo Madama (ma non dal seggio) in cambio di un’espulsione temporanea (tre mesi) dal partito e della ricandidatura alle prossime politiche.
Non è andata così. Non poteva andare così. I barbari sognanti di Roberto Maroni hanno trasformato il consiglio federale nella resa dei conti che desideravano da mesi. E neanche le dimissioni della badante da vicepresidente del Senato avrebbero placato la sete di vendetta dei maroniti. Anzi. È stato chiaro quando ha preso la parola Gianluca Pini, segretario “nazionale” dell’Emilia Romagna: “Noi non vogliamo le tue dimissioni perché vogliamo che te ne vada”. Stesso tono, stesse parole per Maurizio Fugatti, a capo della Lega Trentino. A quel punto è intervenuto Umberto Bossi, supplicante: “Rosi, dimettiti per favore”. E Maroni, contro ogni mediazione: “Le dimissioni non sono abbastanza, dobbiamo cancellarla. O io o lei qui dentro”.
Al momento di votare, il Senatùr è uscito dalla sala, insieme con Marco Reguzzoni, altro anello dell’ex cerchio magico, e Francesco Speroni (che di Reguzzoni è suocero). Maroni li ha raggiunti e avrebbe spiegato meglio il suo ultimatum, In pratica, Bossi si sarebbe fatto convincere del sacrificio della Mauro temendo forse un’ulteriore reazione contro il figlio Renzo, già dimessosi dal consiglio regionale della Lombardia. Risultato: purga votata all’unanimità secondo il copione sovietico caratteristico della Lega. Recita la parte finale del comunicato ufficiale: “Preso atto della decisione della senatrice Mauro, il Consiglio Federale all’unanimità ha decretato l’espulsione dal movimento della stessa senatrice Mauro, ritenendo inaccettabile la sua scelta di non obbedire ad un preciso ordine impartito dal Presidente Federale e dal Consiglio Federale”. Via la Mauro. Via anche il famigerato Francesco Belsito, l’ex tesoriere. In compenso, dall’epurazione si salvano Renzo Bossi e pure Roberto Calderoli, triumviro leghista al centro di nuovi accertamenti della magistratura.
Prima di andare via, Rosi Mauro è entrata nell’ufficio di Bossi. Altro colloquio tra i due. All’uscita, ha smentito la richiesta di dimissioni da parte del Senatùr. Poi: “Credo che abbiano voluto un capro espiatorio. Mi sono tolta un peso dal cuore, non riuscivo a stare nell’ambiguità e nell’ipocrisia. Sulla presunta unità ha prevalso il ricatto politico”. Evidente il riferimento alle minacce di Maroni (“o io o lei”). Quanto al futuro da vicepresidente del Senato, da mina vagante fuori controllo: “Un passo alla volta. Non mi sono dimessa perché tutta questa operazione non mi convince, voglio vederci chiaro. Indietreggiare vuol dire che non c’è la verità”.
La grande vittoria di Maroni (due settimane fa, prima dello scandalo, confidò ad alcuni parlamentari di centrosinistra: “Aspetto solo il giorno che la Lega mi cada tra le braccia, come una mela matura”), però non si limita all’espulsione di Rosi Mauro. Il consiglio federale ha infatti deciso, sempre dopo la canonica “lunga discussione”, di celebrare il congresso alla fine di giugno a Milano. Un evento atteso da dieci
anni. L’ultimo, appunto, nel 2002. Da allora, niente più. Nemmeno dopo l’ictus del Capo, nel 2004. Con Bossi malato, il partito prima è stato retto dalla diarchia Calderoli-Maroni, poi dal cerchio magico “presieduto ” dalla moglie del Senatùr, Manuela Marrone. Adesso la scelta di tenerlo. Ovviamente, l’ex ministro dell’Interno appare il candidato naturale alla successione e non si esclude una soluzione per “riabilitare Umberto” con Maroni segretario e Bossi presidente. In questi giorni gli equilibri del movimento stanno subendo una profonda mutazione, a favore dei barbari sognanti. E al Senatùr più che dimezzato non resta che una promessa. Fatta davanti al consiglio federale: “Rimborserò con un assegno i soldi presi dalla mia famiglia”.

12/04/12

Il Padano e quel guscio (rotto) di tartaruga



E poi, dopo il turbine di quel discorso, dopo le grida, gli urli, le luci, le cornamuse, le scope, i barbari che sognano, che insultano e che adesso gridano anche contro di lui. E poi, dopo l’ultimo bagno di folla, il senso di quella febbre malarica che lo avvolge e non lo lascia: il popolo dei volti attenti, parlare da un palco, l’adrenalina che ti si infila anche nel corpo segnato dalla malattia e ti fa provare un brivido freddo. La vita per chi campa di politica è questo, anche quando ti fischiano.

E poi, l’emozione. Quando dice quella frase, a lungo rimuginata: “Chiedo scusa, ho rovinato i miei figli…”. Subito dopo gli viene da piangere, adesso sta pensando a lui. Così deve riavvolgere il nastro, capire quando tutto questo è iniziato. Il giorno dell’ictus: prima la vita a cento all’ora, senza fermarsi mai. E poi il buio. Oppure: il giorno in cui si è svegliato nella clinica con quel camice verde, mezzo corpo che non si muove più e tutto ha iniziato ad andare al rallentatore? Svegliarsi significa aggrapparsi a quello che ti è rimasto intorno. E poi il tartarughino. Prima che tutto questo accadesse, prima dell’ictus e della resurrezione, non l’aveva mai visto. Un giorno, quando era tornato a casa il suo figlio più piccolo gli aveva raccontato, con il sorriso dei bambini curiosi e felici di tutto: “Lo sai papà, che in giardino c’è una tartaruga che si è spezzata il guscio ma che è sopravvissuta? Un miracolo. Ieri l’ho vista camminare”.

In quel tempo lui ancora rideva.... / (Luca Telese)

11/04/12

Arifotter


Tutto a puttane
Badante puttana lo hai fatto per la grana.
E’ uno dei sofisticati cori ascoltati ieri alla giornata dell’orgoglio padano.
Per chi non è pratico di cose leghiste: la badante puttana sarebbe Rosy Mauro, Mauro; gli eleganti parolieri un gruppo di giovani “barbari sognanti” seguaci di Roberto Maroni.
Dunque il rinnovamento del Carroccio è anche questo. E’ il  puttana ruttato a quattro ganasce a una donna. L’identica sottocultura di Bossi che fa vedere il “manico” a Margherita Boniver.     
C’è poco da stupirsi. Il terronissimo principe di Salina ha preso casa  da tempo  nel profondo Nord. 
E non è nemmeno un soggiorno obbligato. Ai suoi tempi, è vero, non avrebbe mai dato della buttana a una donna. O almeno non lo avrebbe fatto in pubblico. Ma ogni epoca ha le sue parole e la sua specialità di Gattopardi. E i giovanotti di Bergamo sono molto, molto contemporanei.
Altro che barbari sognanti. (Marco Bracconi)

09/04/12

Capolavori Nascosti.3

Capolavoro del Ludo Cigoli: il "Fermo! E se lo mandassimo a lavorare?"


E ora Strossi contro Gnossi

di Michele Serra
 
 
L'addio di Bossi scatena la guerra di successione. In corsa un ex cantante di Pavia eletto senatore a sua insaputa e un meccanico della Val Brembana che ha chiamato i suoi tre figli Alpino, Prealpino e Subalpino. Outsider: un cacciatore di Cambiago che spegne le telecamere con un rutto.

Sostituire Umberto Bossi con un leader dello stesso livello: per la Lega è una scommessa difficile. Ma già affiorano i possibili successori.

Lamberto Gnossi
. Ex cantante dell'orchestra di liscio Omar e Oscar, scopre la politica verso i cinquant'anni quando i leghisti della sua provincia, Pavia, lo eleggono senatore a sua insaputa. Dapprima crede a uno scherzo. Poi, ritirando il primo stipendio da 15 mila euro, capisce che quella è la sua missione. Presenta un disegno di legge che liberalizza la caccia al merlo, ma la sua attività politica tocca anche molti altri aspetti della vita civile del Paese: dalla caccia al beccaccino alla caccia alla peppola. La base lo ama molto per i modi spontanei: fa i comizi con la patta aperta e il suo intercalare tipico è "vacaboja!". Politico molto accorto, non si è ancora pronunciato pro o contro la secessione perché prima vuole capire che cosa significa la parola. Ha tre figli: Padanio, Padania e Mario Po.

Roberto Strossi.
Strossi è il fondatore della Lega Alpina Prealpina e Subalpina, che confedera le tre precedenti leghe Alpina, Prealpina e Subalpina (tutte e tre fondate da lui) in una sola. A questa missione ha dedicato tutta la sua vita e per questo tutti lo chiamano "l'ideologo". Nativo di una piccola frazione della Valbrembana, non è mai stato eletto a nessuna carica pubblica ma nella sua officina meccanica legifera in proprio. Ha preparato una legge che rende obbligatoria la caccia al tordo per tutti i cittadini italiani che hanno compiuto i diciotto anni, con un periodo di addestramento di tre mesi presso la pensione della sorella Ines. La base ne apprezza molto lo stile alla mano: nei dibattiti televisivi attacca le caccole sul microfono e il suo intercalare tipico è "bojavaca!". Ha tre figli: Alpino, Prealpino e Subalpina.

Umberto Ossi. Diplomato in batteria per corrispondenza, suona con il coro delle mondine del Vercellese. I canti rurali non prevedono la batteria, ma Ossi, con la tenacia che gli è valsa la stima e l'affetto della base, ha chiesto allo zio sindaco di fare un'ordinanza che obbliga a introdurre un assolo di batteria in ogni canzone eseguita in zona. Scrittore autodidatta, sta ultimando (è già a pagina 2) un saggio nel quale dimostra che i confini della Padania coincidono con quelli di Atlantide. Per questa pubblicazione è stato nominato rettore dell'Università dell'Insubria. Ha tre figli, ai quali ha dato i nomi degli ultimi tre re di Atlantide: Octopus I, Octopus II e Octopus III. E' autore di un progetto di legge che promuove la pesca al pesce gatto, del quale è così ghiotto che lo mangia con le mani mentre fa i comizi, applauditissimo dalla base.

Floberto Rossi.
Il suo disegno di legge, che autorizza le battute di caccia al canarino in gabbia e in negozio, lo ha reso popolarissimo nel bresciano. Eletto deputato a furor di popolo, si è presentato a Roma con la doppietta ma ha accettato di consegnarla ai commessi, dando un segnale di maturità politica che ha profondamente impressionato. Uno dei suoi pochi rammarichi è non avere potuto avere figli perché troppo impegnato nell'attività venatoria. Ha però adottato un Suv, che lava ogni sabato sulla piazza del paese tra gli applausi della base entusiasta.

Berto Umbossi.
Gli Umbossi sono, da generazioni, gestori del tiro al volo di Cambiago Pertugnago, un paese del Milanese vicino a Inzago Tormegnago. Sono molto rispettati dagli abitanti della zona perché sono tra i pochi che riescono a tornare a casa senza perdersi. Berto è sceso in politica per coronare un sogno: trasformare le aiuole in mezzo alle rotonde stradali in riserva di caccia. La base lo ama per i modi schietti: mentre fa i comizi si pulisce le unghie con un coltello da macellaio e in un dibattito televisivo ha spento la telecamera con un rutto. Ha tre figli, i cui nomi sono un inno al territorio e alla cultura padana: Rotonda, Capannone e Svincolo.

07/04/12

Auguri!


Magici Cerchi Nel Grano


Il giochino padano - Marco Bracconi

Deve rispondere solo alla Padania, al movimento, ai militanti.
Vedi a quante cose serve la fiction secessionista. Ieri a giustificare l’occupazione pro-tempore di potenti poltrone romane. Oggi ad alzare una cortina di nebbia sulla sostanza delle cose.   
Ci vorrebbe un po’ di onestà intellettuale, che anche il più ultras dei lumbard è in grado di esercitare.
I soldi finiti nei fondi neri e nelle tasche private non stanno a bilancio della Padania, ma dello Stato. 
E l’Italia sarà anche una nostra puerile invenzione, ma dei soldi ricevuti dall’Italia è il caso che Bossi risponda agli italiani. A tutti, gli italiani.

05/04/12

Capolavori Nascosti.2


Umberto, sei tutti loro 

“E ora chi rappresenterà il Nord?”, domanda affranto Dario Di Vico, vicedirettore del Corriere, a Linea Notte. E Pigi Battista, sempre sul Pompiere, si unisce al cordoglio magnificando “la riconosciuta grandezza di un leader che ha imposto nell’agenda politica nazionale la “questione settentrionale” e ha interpretato i sentimenti di un popolo che non aveva rappresentanza politica…Non sarà una miserabile vicenda di fondi stornati a cancellare una storia iniziata nelle periferie del sistema”.

Nord? Popolo? Questione settentrionale? Ma la Lega, quando le andava bene, rastrellava il 30 % dei voti validi in Lombardia e in Veneto, molto meno nel resto della cosiddetta Padania: mai rappresentato più del 10-15 % degli elettori nordisti. Il che non cancella il suo ruolo storico nella caduta della Prima Repubblica e nel sostegno a Mani Pulite, quando tutti i vecchi partiti avrebbero volentieri spedito Di Pietro in Aspromonte o in Barbagia. Ma son passati vent’anni. L’ultima volta che Bossi fece qualcosa di utile fu nel ‘94, quando rovesciò B., giocandosi tutto mentre il Cainano si comprava i leghisti a uno a uno (ci volle tutto l’impegno di D’Alema per resuscitarlo con la Bicamerale). Ma son passati 18 anni. Poi la Lega divenne un tragicomico caravanserraglio di pagliacci, parassiti, cialtroni, molti razzisti, qualche ladro, parecchi servi. L’ampolla, il matrimonio celtico, il druido, Odino, il tricolore nel cesso, i terun, i negher, foera di ball, il dito medio, il gesto dell’ombrello, le pernacchie, il ce l’ho duro, i kalashnikov, le camicie i fazzoletti le cravatte verdi, il parlamento padano, la moneta padana, la banca padana, il villaggio vacanze in Croazia, l’amico Fiorani, le zolle di Pontida, l’uscita dall’euro.

Si sono inventati tre trovate da avanspettacolo di strapaese – la secessiùn, il federalismooo, la devolusssion – e ci han campato per due decenni alle spalle del cosiddetto “popolo”. Ma, sotto sotto, di quell’armamentario carnevalesco, ridevano anche i leader, ben felici di trovare qualche milione di persone disposto a bersi tutto come l’acqua del dio Po e a rimandarli a Roma ladrona, a occupar poltrone come tutti gli altri. In un raro momento di lucidità, Calderoli, divenuto ministro, confessò al Corriere: “Su di me non avrei scommesso un soldo”. Ora è nientemeno che triumviro, ma la sua fidanzata Gianna Gancia, che lo conosce bene, fa sapere che “Roberto non va bene, ha il faccione e veste male, va da un sarto quasi cieco”. Senza contare che un giorno, colto da raptus, incenerì col lanciafiamme “375 mila leggi inutili”, fra cui i decreti di annessione del Veneto e del ducato di Mantova al Regno d’Italia. Ora sui giornali è tutto un rincorrersi di versioni assolutorie per il grande capo: han fatto tutto il cerchio magico, la famiglia famelica, la moglie fattucchiera, i figli spendaccioni, la badante Rosi, il tesoriere ladro, all’insaputa del povero infermo.

A parte il fatto che Bossi sapeva da mesi, almeno da quando i giornali lo informarono che Belsito aveva portato 7 milioni in Tanzania e questo lo ricattò sui soldi alla Family per salvare la cadrega, chi ha scelto Belsito? Bossi. Chi ha mandato in Regione il Trota a 12 mila euro al mese? Bossi (senza contare i presunti 20 milioni di fondi neri da lui girati all’ex tesoriere Balocchi). Il resto sono lacrime di coccodrillo. Ma la mano leggera e l’occhio umido di molti giornali nasconde una coda di paglia lunga così: per anni han preso sul serio quei gaglioffi e il loro federalismo da baraccone. Anche le parole tenere e commosse degli altri capi-partito celano la coda di paglia di chi sa benissimo che la truffa dei “rimborsi” senza controllo riguarda tutti: oggi è toccato a Bossi, domani potrebbe toccare a loro. Ieri mattina infatti, letti i giornali, il Senatur ha prontamente cambiato parole d’ordine: non più l’ “ho sbagliato” della sera prima, ma “è un complotto” dei soliti pm.

Se passa il principio che un leader neppure indagato si dimette, si crea un pericoloso precedente. Infatti dal Palazzo si leva un coro unanime: Umbe’, nun ce lassà. (Marco Travaglio)

Pilates nei Caraibi




FINE DI UN TROGLODITA - Di Piergiorgio Odifreddi


Finalmente esce di scena, travolto dagli scandali, uno dei tribuni del popolo più rozzi e imbarazzanti che abbia mai avuto il nostro paese, che pure ci ha fatto ripetutamente vergognare per la levatura personale, morale e politica della sua classe dirigente.

Umberto Bossi ha incarnato per venticinque anni l’anima più rudimentale, ignorante e becera dell’italiano medio. E la Lega Nord ha rappresentato gli interessi più provinciali, conservatori e qualunquisti di una piccola (anzi, piccolissima) borghesia, degnamente rappresentata dal suo indegno leader.

Quello che molti indicavano come un “politico finissimo” era ed è, in realtà, soltanto una persona sgradevole e volgare, i cui unici argomenti dialettici non andavano oltre il dito medio continuamente alzato verso l’interlocutore, e il vaffanculo continuamente biascicato come un mantra.

Il cosidetto “programma politico” della Lega, d’altronde, era all’altezza di questa bassezza, e si limitava al protezionismo nei confronti dei piccoli commercianti e dei piccoli coltivatori e allevatori diretti, condito da anacronistici proclami per la secessione e l’indipendenza di una fantomatica Padania.

Le patetiche cerimonie a Pontida, e le ridicole simbologie solari o guerriere, rimarranno nella storia del kitsch, a perenne ricordo delle camicie verdi: versione di fine secolo delle camicie nere o brune della prima metà del Novecento, e ad esse accomunate dall’ottuso odio razziale e xenofobo.

Che un movimento e un leader di tal fatta abbiano potuto raccogliere i consensi di una parte consistente della popolazione del Nord Italia, era ed è un’ironica smentita della sua supposta superiorità nei confronti di “Roma ladrona” e del “Sud retrogrado”, oltre che una testimonianza significativa del suo imbarbarimento.

Come se non gli fossero bastati luogotenenti quali Borghezio, Calderoli o Castelli, negli ultimi tempi Bossi aveva lanciato e imposto in politica il proprio figlio degenere. E’ un degno contrappasso, il fatto che proprio le malefatte del rampollo abbiano contribuito alla caduta del genitore. E, speriamo, anche del suo movimento.

Padre e figlio possono ringraziare la fortuna che li ha fatti nascere in Italia, e non in Iraq o in Libia, anche se entrambi hanno contribuito a far regredire il nostro paese al livello di quelli. Non li vedremo dunque trascinati nella polvere, e giustiziati sommariamente: ci acconteremo, o accontenteremmo, di vederli sparire con ignominia dalla politica e dalle nostre vite. Anche se le grida di “tieni duro” da parte dei loro sostenitori ci fanno temere parecchio al riguardo.

Il Carroccio passava...



Bossi malato e gli affari ‘a sua insaputa’

Di nuovo a sua insaputa. E così dal “familismo amorale” tanto caro a Paul Ginsborg e al “Tengo famiglia” di Leo Longanesi – li ricordava ieri Filippo Ceccarelli su Repubblica – Umberto Bossi è passato all’ennesima mutazione genetica, alla dissipazione di se stesso, alla sublimazione di un mito appannato nello spietato tritacarne di un familismo tutto particolare, il “Familismo senile”.

E dire che Umberto Bossi era sempre stato un contaminatore di stili, di generi, di idee oltre l’iperbole, uno che fondeva il Sacro Graal con Guerre Stellari, che univa i manga giapponesi all’esoterismo autocratico, la letteratura al rutto. A noi giornalisti a Montecitorio, nel 1995 diceva ispirato ma serio: “La Lega arriverà al massimo storico perché questo è l’anno del Samurai!”. Uno che inveiva sprezzante contro l’ex amico Gianfranco Miglio dicendo: “È una scoreggia nello spazio”. Uno che coltivava l’idea del capo guerriero ambientando il suo immaginario fra le cornamuse hollywoodiane di Braveheart, gli spadoni di cartapesta, gli elmi di Asterix e la fisicità ruvida delle camicie verdi. Uno che prima della malattia se (rarissimamente) citava la propria famiglia diceva: “Quando un capo guerriero va in battaglia sua moglie lo segue dietro il suo cavallo”.

Era insomma l’orgoglio neobarbarico che si opponeva al più antico dei vizi italici. Non c’era lessico familiare, non c’erano first ladies, non c’erano case e giacigli, perché il Senatùr era sempre in battaglia per il Carroccio, dormiva in macchina e la sua famiglia era confusa nel suo popolo. La prima moglie di Bossi diceva di aver visto dissipato tutto per la causa del marito (e senza volerlo), di aver subito la beffa del finto medico che andava al lavoro. Quel Bossi i soldi li disprezzava, da ragazzo quando sognava di vincere Castrocaro con il memorabile nome d’arte di “Donato” cesellava versi immortali come questi: “Noi siam venuti dall’Italy / Abbiamo un piano / per far la lira / Entriamo in banca col caterpillar / e ci prendiamo il grano”.
Da ragazzo quando aveva la tessera del Pci raccoglieva firme contro il golpe in Cile. Eppure, l’ultimo paradosso di questo nuovo pasticciaccio padano è che su un solo punto il senatùr ha ragione. È lui l’unico politico italiano che può fregiarsi dell’immunità dell’inconsapevolezza, o – meglio – dell’ “insaputezza”. L’unico, cioè, che può dire a pieno titolo “Mi hanno ristrutturato la casa a mia insaputa”, perché da tempo non è più in grado di capire, controllare, discernere il filo degli investimenti spregiudicati, le speculazioni pataccone della Lega Nord (“per l’indipendenza della Tanzania”).

Così bisognerà approfittare del “Caso Belsito”, per trovare il coraggio di prendere atto anche in questo paese gerontoiatrico che le cose finiscono e che la leadership di Bossi era evaporata nel 2004, dopo il malore che ne aveva lesionato il corpo, la resistenza, la tenuta. Il Bossi di questi ultimi otto anni avrebbe avuto diritto al riposo, alla pensione e non essere costretto a inscenare la parodia del Bossi che fu, della sua caricatura. Invece la virilità è diventata senilità: il leone spelacchiato costretto a saltare nel cerchio di fuoco, il leader che bisbiglia costretto ad alzare il dito medio.
Era come una condanna: più il mito superomistico si indeboliva, più lui era costretto ad alzare i toni del doping testosteronico. L’invettiva un tempo grottesca e carnevalesca si era ormai fatta malinconica, la satiriasi della Lega “armata di manico”, era diventato il tic del semi-infermo che prometteva di “Spaccare la faccia” ai giornalisti o che profetizzava per Mario Monti l’impossibilità di “uscire vivo” dal Nord. Sempre più truce, sempre più crepuscolare, ma sempre senza ferocia e senza consapevolezza.
Anche in questo tramonto, infatti, Bossi non è pienamente consapevole del proprio dissiparsi. Incredulo davanti ai fischi di Pontida, incapace di cogliere voci e contestazioni su cui un tempo surfava come un semidìo, attonito come lo fu Nicolae Ceaucescu nel suo ultimo comizio a Bucarest. Ci voleva la vulcanica e fervida inventiva di Roberto D’Agostino per coniare un’espressione che oggi pare l’epitaffio di una vita, quella micidiale immagine dei “Bossi di seppia” che occhieggiano a Eugenio Montale, e all’idea stessa del carisma svaporato.

Adesso il Senatùr convoca il suo consiglio federale senza sapere che fine farà, senza poterne scrivere il copione, avendo già provato sulla pelle in molte sedi della Lega l’onta della contestazione, appesantito come un eroe shakespeariano dagli acciacchi e dagli sberleffi, macchiato da tutti i commissariamenti che ha dovuto sottoscrivere per mantenere in vita il fragile equilibrio del suo patetico “Cerchio magico”, e per consentire all’ex autista improvvisatosi tesoriere la spregiudicata implausibilità delle speculazioni gratta-e-vinci. Il Bossi-guerriero che aveva fondato la Lega era stato un profeta dell’antifamilismo, il Bossi-di-seppia che (salvo detronizzazioni) sta seppellendo la Lega ha fatto del familismo il suo programma sanitario, la sua incerta stampella, la sua ultima grottesca suggestione, quella del Re che designa un successore esangue, del “Delfino” che diventa “Trota”.

Se Bossi fosse uscito di scena quando il suo male lo aveva messo al tappeto, la sua guarigione lo avrebbe reso un padre della patria. Ma in questo paese in cui pochi riescono ad arrivare alla grandezza, nessuno conosce il segreto di Cincinnato e nessuno sa uscire di scena. Sarà un epilogo triste: anche questo – purtroppo per lui – a sua insaputa. (Luca Telese)

04/04/12

La Casta si è fermata a Cuneo


A Cuneo, dove tutti idealmente abbiamo fatto il militare, sono seicento i cittadini che aspirano a fare il consigliere comunale. Seicento su una popolazione di sessantamila anime, poppanti compresi, significa un candidato ogni cento cuneesi. Siamo al delegato di condominio. E mica soltanto a Cuneo. Ventisette liste a La Spezia, sedici candidati per la poltrona di sindaco ad Alessandria, ottocentocinquanta aspiranti consiglieri a Catanzaro e milletrecento a Palermo. L’esperienza suggerirebbe il cinismo: ecco i soliti italiani, buoni a sputar fiele sulla Casta, in realtà smaniosi di farne parte: il titolare di un pacchettino di cinquanta voti potrà farlo pesare al momento delle alleanze, contrattando posti e prebende, alimentando spesa pubblica e familismi assortiti.

Eppure mi voglio illudere che stavolta sia diverso. Che la liquefazione dei partiti della cosiddetta Seconda Repubblica rappresenti un fatto compiuto e i rivoli della società civile abbiano ricominciato a scorrere nell’alveo secco della politica, riempiendolo di una quota inevitabile di lestofanti, mestatori e goliardi (in una comunità montana del Cuneese c’è persino la lista bunga bunga), ma anche e soprattutto di idealisti e di entusiasti. Certe liste naïf hanno nomi palpitanti: Nuvole, Esuli in patria, Politica pulita. Bene comune, I cittadini prima di tutti. E’ un flusso scomposto, in qualche caso sgangherato, ma pieno di passione politica ed energia vitale: quella che i partiti non esprimono più. La democrazia del futuro è nascosta lì in mezzo. L’augurio è che non si faccia guastare dalle cattive compagnie. (Massimo Gramellini)